Chi non ricorda gli straordinari versi di Dante nelle Divina Commedia in cui il suo avo Cacciaguida gli profetizza l’esilio?
Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l'arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.
Si può dire che non ci siano epoche e luoghi, le cui genti non abbiano conosciuto questa drammatica realtà cantata dall’Alighieri. “Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente…” E’ questo il vuoto maggiore che l’esiliato si porta dietro, insieme al ricordo di quanto è stato costretto a lasciare. Non solo le persone, amici, parenti, la propria casa, il lavoro, le tombe dei propri morti, e i luoghi e i colori e gli odori. Tu lascerai anche la propria lingua…
E’ quello che è capitato a Maryam Madijdi, una scrittrice iraniana, nata nel 1980 a Teheran, i cui genitori comunisti, già oppositori dello Scia di Persia e poi di Khomeini, si trovano a dover andare in esilio a Parigi. Maryam ha solo cinque anni e, arrivata a Parigi, si trova in uno stato di confusione esistenziale. Lì, i bambini della scuola a cui è stata iscritta parlano un’altra lingua invece del persiano, e si trova obbligata, parallelamente, a frequentare il “CLIN”, cioè il “Corso introduttivo per non francofoni”, una classe della scuola elementare riservata agli stranieri appena arrivati in Francia, con l’obiettivo di un più veloce inserimento scolastico.
La sua prima reazione è un ostinato mutismo, quando vede che i suoi compagni di scuola la prendono in giro per come parla, per come si veste, per cosa mangia. Un sentimento di inferiorità che le farà prendere una decisione: integrarsi pienamente nel nuovo ambiente. E lo fa contro la volontà del proprio padre che invece pretende che la propria figlia, a casa almeno, continui a parlare il siriano, perché – le dice il padre – queste sono le tue radici. Ma lei, prontamente, gli risponde: “Io non sono un albero”. E “Io non sono un albero” è il significativo titolo del libro, edito in Italia da Bompiani, nel quale Maryam Madijdi racconta la sua esperienza.
Il racconto parte da lontano. Da quando, prima ancora della sua nascita, i genitori si erano distinti durante le proteste nei confronti dello Scia e la madre di Maryam si era trovata addirittura incinta di lei di sette mesi a una manifestazione, non esitando a gettarsi dal secondo piano di una casa per sfuggire a due uomini che la inseguivano con dei bastoni chiodati, rompendosi una gamba. Per fortuna la bambina sopravvisse L’avvento di Khomeini non porterà il cambiamento, che per un errore di valutazione politica, speravano. Tant’è che il padre, perso posto in banca, si rifugia a Parigi. Un anno dopo sarà raggiunto dalla moglie e dalla figlia, che nel frattempo ha compiuto sei anni.
Maryam si vergogna addirittura della sua condizione di esule, straniata com’è dalle nuove condizioni di vita, dalla casa in cui, lei che viveva in un bel quartiere di Teheran, si trova a vivere in un monolocale di 15 metri quadrati, un buco che puzza di umidità e miseria, priva del bagno, al sesto piano di una senza ascensore, su un pianerottolo sul quale si affacciano altre porte ce n’è una sulla quale è scritto WC, termine che non conosce. “Vorrei starmene zitta quando mi chiedono delle mie origini. Vorrei raccontare altro, qualsiasi altra cosa, inventare, mentire.”
Intanto Maryam cresce, diventa una bella donna, sarà insegnante di francese. Ma in tutti questi anni, sia per i tratti somatici che per un certo accento, le chiedono sempre di dov’è. Non sei francese? E quando una volta, alla stessa domanda, risponde come sempre “Io sono francese” un tizio scoppia a riderle in faccia. “Pensavo che per insegnare il francese bisognasse essere francesi, no?”
Queste continue obiezioni, ma soprattutto la scossa rappresentata dalla morte del padre, la spingono, a un tratto, sì, a diventare un albero, a risentire, forti e profonde, le sue radici, con il rimorso di aver dato tanto dolore al padre. Riprende così a studiare il persiano.
A ventidue anni l’assale la voglia di tornare in Iran, di abbracciare i famigliari rimasti, il fratello del padre, anch’egli con un passato in carcere, la vecchia nonna che l’aveva accudita fino ai 6 anni. Ci va, conosce il nuovo Iran, una società contradditoria in cui, l’islam si manifesta ovunque nella sua veste più integralista, ma dove anche si svolgono feste clandestine nel corso delle quali i giovani si danno all’alcol, le ragazze si vestono all’occidentale, si fuma, si amoreggia apertamente, correndo il rischio di un intervento della polizia, magari accompagnata dalle Fatmeh Commando, donne col velo integrale “che aggrediscono altre donne non sufficientemente coperte dal velo o vestite in modo provocante”. Ciononostante Maryam non vorrebbe più andarsene. Vorrebbe restare lì dove ha le sue radici. Ma è la stessa nonna a convincerla a partire. “La tua educazione ha fatto di te una donna libera, non puoi più vivere qui…”. E lei è costretta a una sorta di secondo esilio. Con la voglia però, una volta tornata a Parigi, di scrivere un libro in cui dire tutto di lei, di questa “storia di un esilio persiano” come recita il sottotitolo di “Io non sono un albero”. Una storia che la liberi dai fantasmi che erano venuti a cercarla. Lo fa seguendo la raccomandazione, ancora una volta, della nonna stessa che le dice: “Rendi loro omaggio. Non li raccontare con falsa modestia e segreto orgoglio, ma dall’interno, Maryam, da dentro. Lascia che il tuo dolore si senta”. E così ha fatto.
Ne è nato un libro nel quale ogni esiliato, ogni profugo, si può riconoscere.