Il cliente della banca lo aveva acquistato per 10mila euro, per poi scoprire che vale la metà del prezzo pagato e infine la denuncia alla banca. L’istituto di credito si difende sostenendo che non aveva il ruolo di intermediario, ma per il giudice i fatti danno ragione al cliente.
Nella beffa dei diamanti venduti a prezzi gonfiati tramite diversi istituti di credito, non ci sono cascati solo grandi nomi dello spettacolo – tipo Vasco Rossi e Federica Panicucci – ma anche semplici correntisti di filiali di periferia. Com’è successo al libero professionista di Livorno che il 23 dicembre 2015 – dopo essere stato contattato da un dipendente di BPM di Livorno – ha sottoscritto un contratto d’acquisto per un diamante del valore di diecimila euro. Dopo circa tre anni lo stesso cliente ha ritirato il prezioso assistito «da un gioielliere esperto» scoprendo che alla data dell’acquisto il valore di quello stesso diamante era di 4.500 euro e che la momento in cui era stato ritirato gli veniva attribuito un valore addirittura inferiore ai 4mila euro.
Il cliente inizia una battaglia giudiziaria contro l’istituto di credito che si è conclusa la settimana scorsa con la sentenza della giudice del Tribunale civile che ha dato ragione all’ormai ex correntista condannando la banca a risarcimento del danno. Che è stato poi stimato da un consulente del tribunale in poco più di cinquemila euro, oltre alle spese processuali.
Durante il dibattimento Banco Bpm Spa patrocinato, ha sostenuto con fermezza di non aver avuto in alcun modo il ruolo di intermediario e che il reale valore del prezioso diamante non è mai stato oggetto di valutazione da parte della banca.
Si legge dagli atti processuali che la banca «sosteneva espressamente che il proprio ruolo fosse stato quello di mero tramite e/o segnalatore, totalmente estraneo al contratto di negoziazione, con conseguente inapplicabilità della normativa a tutela del consumatore. Con ciò escludendo che la banca svolgesse attività a qualunque titolo promozionale, e giustificando la percezione della commissione dal fatto che IDB (Intermarket Diamond) Business accedeva alla clientela della banca, a supporto della sua tesi difensiva parte convenuta allegava che il materiale pubblicitario consegnato all’attore recava esclusivamente il logo di IDB».
Il giudice a sua volta sottolinea in sentenza: “la vicenda si inserisce nel filone delle vendite dei cosiddetti diamanti da investimento da parte di numerosi istituti bancari ed è stata esaminata in maniera approfondita sia dall'Autorità garante della concorrenza nella decisione del 30 ottobre 2017 – con la quale gli istituti di credito coinvolti sono stati sanzionati per violazione della disciplina consumeristica sulle pratiche commerciali scorrette – che dal Tar Lazio nella sentenza del 14 novembre 2018, il quale ha respinto il ricorso avverso quella pronuncia da parte di Banco BPM.”
La motivazione
Al contrario la banca ha «indubbiamente svolto un'attività di consulenza, non diversa da quella svolta in ogni altro tipo di investimento, come risulta a titolo puramente esemplificativo dall’attività di presentazione dell’investimento, fissazione dell’incontro fra la IBM e il cliente, proposta d’acquisto e stipula del contratto all’interno dei locali commerciali della banca, svolgendo invero il ruolo di termine di riferimento del cliente, al fine di orientare le scelte di quest'ultimo.
La contraria tesi della convenuta, secondo la quale essa si sarebbe limitata a svolgere un’attività di mera segnalazione, «non è verosimile, alla luce delle elevate commissioni percepite dalla convenuta medesima, che altrimenti resterebbero prive di giustificazione».