Le esportazioni del dragone cinese hanno di nuovo spiccato il volo.
L’economia globale è in piena recessione ed il volume del commercio globale è sceso del 18,5% nel secondo trimestre 2020; ciò nonostante per il 5° mese di fila il volume di scambi da/per la Cina è salito di una media del 5,6% anno su anno, con una crescita del 10,4% delle esportazioni e dell’1,4% delle importazioni.
Questo implica che dopo anni di declino il peso cinese nel commercio globale è tornato a crescere nel 2020 (+0,1%). È un trend destinato a consolidarsi con la progressiva ripresa dell’economia: la Cina rischia di chiudere il 2020 con il più alto surplus della bilancia commerciale di sempre (cfr. Figura 1).
La crescita degli ultimi mesi è stata trainata dall’export di materiale sanitario ed apparecchiature elettromedicali, su cui la Cina ha mantenuto una schiacciante superiorità produttiva rispetto alle economie occidentali nonostante lo stop dovuto al lockdown nazionale. Prezzi del petrolio e delle materie prime straordinariamente bassi hanno aiutato la ripresa delle esportazioni in tutte le principali aree geografiche: il valore dell’interscambio con l’Unione Europea è già tornato ai livelli pre-pandemia. Rispetto al 2019 permane un calo del 5% dei volumi verso gli USA, anche se il rimbalzo si sta dimostrando più forte di quanto preventivato (cfr. Figura 2).
Figura 2
A metà 2020 per ogni dollaro in ingresso in Cina grazie all’export, solo 75
centesimi vengono impiegati per le importazioni. Se si guarda esclusivamente al
settore manifatturiero, la Cina spende per l’import solo 50 centesimi su 1 dollaro
incassato. Quando il volume delle esportazioni raggiunge i 2.000 miliardi di $,
questo gap diventa il motore della ripresa del PIL, che è cresciuto di un
ragguardevole +3,2% nel secondo trimestre 2020; per avere un confronto i
Paesi OCSE hanno sperimentato un calo del -9,8%.
Il governo ha sostenuto la ripresa economica export-driven come obiettivo
strategico. Rispetto alle dimensioni totali dello stimolo fiscale pari a 880 miliardi
di $, Pechino ha destinato 116,6 miliardi a detrazioni ed esenzioni fiscali sulle
esportazioni. Queste misure di sostegno hanno consentito alle imprese di
riavviare rapidamente le operazioni sul mercato estero nonostante i problemi di
liquidità.
Il grande assente nella risposta governativa allo shock pandemico è stato un
programma di stimolo dei consumi privati, a differenza dell'Occidente. Lo
stimolo fiscale previsto è attualmente di 4-5 volte inferiore a quello degli USA.
Poca roba rispetto a quanto venne stanziato dopo la crisi finanziaria del 2008-
2009, quando la Cina - con un'economia 3 volte più piccola rispetto all’attuale -
varò un programma di espansione fiscale pari a quello americano.
Il grande afflusso dei capitali dall’estero
Soltanto 2 anni fa sembrava che la progressiva integrazione finanziaria della
Cina e la perdita di competitività rispetto alle altre economie emergenti asiatiche
stessero erodendo il primato nelle esportazioni.
Ciò si stava riflettendo in un riassorbimento tendenziale dello storico surplus
delle partite correnti ed in un nuovo interesse delle corporations cinesi ad attrarre
capitale estero tramite ricapitalizzazioni e nuove emissioni di titoli di debito.
C’era già chi profetizzava una nuova economia globale in cui anche la Cina
avrebbe avuto un deficit delle partite correnti, assumendo il ruolo di consumatore
di ultima istanza ora svolto esclusivamente dagli USA.
La crisi pandemica ha completamente stravolto il quadro e riproposto con
decisione la posizione della Cina come “fabbrica del mondo” ed attrattore di
capitali esteri. Per capire cosa stia realmente succedendo è utile osservare da
vicino la struttura della bilancia dei pagamenti (BdP) cinese, che registra la
tipologia di transazioni sottostanti ai movimenti di capitali.
Il primo fenomeno che balza agli occhi è la ripresa spettacolare dell’avanzo delle
partite correnti nell’ultimo trimestre, che fino a fine 2019 sembrava in declino
strutturale. Oltre alla riduzione tendenziale dell’avanzo commerciale c’era un
altro fattore all’opera: il crescente deflusso di capitali connesso con l’aumento
del turismo internazionale dei cittadini cinesi (Figura 3, barre gialle), che aveva
raggiunto ad inizio 2020 la ragguardevole dimensione del 3% del PIL, circa 500
miliardi di $ l’anno.
Non era solo turismo: l’aumento del reddito disponibile di una classe media in
espansione andava di pari passo con le richieste di trasferimento fisico (per lo
più legale) di valuta all’estero per la quota massima concessa dal governo (circa
50.000$ all’anno per cittadino).
Figura 3
Con lo shock pandemico, si nota non solo l’impressionante “stop and go” del saldo
commerciale dovuto al lockdown ed alla successiva fortissima ripresa ma anche la
marcata riduzione dei deflussi di capitale connessi al turismo internazionale,
crollati dai 60 miliardi di $ mensili di inizio 2020 ai 20 di giugno. La somma di
questi effetti ha portato ad una crescita senza precedenti del saldo delle partite
correnti, +150 miliardi di $ in un singolo trimestre.
La ripartenza del surplus delle partite correnti ha implicazioni di rilievo anche
sul saldo dei flussi finanziari della BdP cinese, dato che per definizione la somma
dei due saldi, del conto capitale e di eventuali errori ed omissioni deve essere
pari a zero. L’analisi del conto finanziario contribuisce a definire un quadro
chiaro sulla destinazione d’uso della liquidità in ingresso in Cina (cfr. Figura 4).
In questo contesto, valori positivi sono convenzionalmente associati a deflussi
di liquidità, e viceversa. Ad esempio, un investimento in attività estere di
cittadini cinesi è contabilizzato come deflusso di liquidità, un disinvestimento
viceversa. Parimenti, un investimento estero in attività cinesi è considerato un
afflusso di liquidità, un disinvestimento viceversa.
Figura 4
I dati mostrano come nel 2019 si registrasse – mediamente – un deflusso netto
di capitali verso l’estero, guidato da un significativo impatto degli investimenti
diretti (barre rosse), di disinvestimenti di portafoglio dall’estero in azioni, fondi
comuni (barre azzurre) e titoli di debito (barre arancioni) e da una lieve riduzione
del cospicuo stock di riserve valutarie (barre gialle, ad esclusione del primo
trimestre). I deflussi erano compensati da una crescita dei prestiti e delle linee
di credito estere delle banche cinesi (barre celesti) e da una riduzione delle
attività finanziarie cinesi all’estero (barre verdi e viola).
Nel primo trimestre 2020 con il lockdown si riduce precipitosamente
l’esposizione verso l’estero delle banche nazionali e prevedibilmente aumentano
i flussi di rientro derivanti dai disinvestimenti di attività estere da parte di
cittadini ed imprese cinesi a caccia di liquidità. I flussi restano comunque
abbastanza bilanciati, non si assiste a nessuna fuga di liquidità come quella
sperimentata dal nostro Paese a marzo 2020.
La sorpresa arriva nel secondo trimestre: il boom del saldo di conto corrente
(+120 miliardi) ha implicato specularmente un afflusso enorme di liquidità verso
l’economia cinese che è solo in minima parte riflesso in un accumulo di riserve
valutarie (19 miliardi) e non dipende da una variazione degli investimenti diretti,
che è stata infatti minima.
Circa 103 miliardi di $ sono affluiti pertanto in investimenti di portafoglio di
varia natura, dei quali, con i dati preliminari a disposizione, non è possibile
fornire per il momento una decomposizione chiara. Plausibilmente, con la
riapertura dell’economia ed il ripristino delle catene di distribuzione delle merci
saranno in forte ripresa i prestiti e le linee di credito interbancarie (le barre gialle)
e gli investimenti esteri nel settore privato non finanziario.
Si tratta ovviamente di flussi di portafoglio molto volatili e dipendenti
dall’andamento di variabili quali i tassi di interesse e di cambio e dalla direzione
della politica monetaria delle principali banche centrali, ma si osserva un rientro
in grande stile del mercato cinese dei capitali sullo scenario internazionale.
In definitiva il governo cinese con la sua strategia export-driven ha deciso di
“cavalcare” i programmi di espansione fiscale delle economie occidentali,
finanziati (ovviamente) a debito ed incentrati sul sostegno ai consumi. I deficit
fiscali di USA ed Europa stanno fornendo benzina alla ripresa economica di
Pechino e consentendo quel recupero di competitività e di posizione dominante
che erano stati erosi dalla guerra commerciale pluriennale con Trump.
Un'elezione USA favorevole potrebbe anche dare un assist insperato agli
interessi strategici cinesi. Certo, una Cina "a traino" dell’Occidente non depone
bene per le speranze di una ripresa economica globale.
Marcello Minenna, Direttore Generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli
@MarcelloMinenna
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