Tre settimane fa Wirecard, il prodigio tedesco del fintech, ha presentato istanza di bancarotta presso il tribunale di Monaco di Baviera per minaccia d’insolvenza ed indebitamento eccessivo.
L’antefatto è noto: appena pochi giorni prima il revisore dei conti (Ernst & Young) aveva rifiutato di certificare il bilancio dell’esercizio 2019 per mancanza di adeguate informazioni circa l’effettiva esistenza di €1,9 miliardi di liquidità. Secondo il management di Wirecard tali somme erano depositate in conti fiduciari (trust accounts) presso due banche delle Filippine che però hanno dichiarato che la società non è loro cliente e l’hanno accusata di falsificazione di documenti.
In pochi giorni il titolo Wirecard (una delle 30 blue chip del DAX, principale indice della Borsa di Francoforte) è crollato da €104,5 (al 17 giugno 2020) a €1,28 (al 26 giugno 2020), perdendo oltre il 98% del proprio valore. E facendolo perdere ai propri azionisti tra cui investitori istituzionali e fondi hedge del calibro di DWS (società tedesca di asset management, che deteneva una quota di oltre il 7%), Blackrock e Vanguard. Secondo alcune stime sarebbe stato bruciato un valore d’investimento compreso tra i €16 e i €20 miliardi.
Senza contare la materializzazione del rischio di credito subìta da numerosi istituti bancari (esposti verso la società per circa € 3,7 miliardi). Gli unici a guadagnare da questo tracollo sono stati alcuni hedge funds – che hanno chiuso con profitto vendite allo scoperto (short selling) fatte prima del 17 giugno – e, ovviamente, anche i competitors di Wirecard, come Paypal, Square Inc. o l’olandese Adyen, le cui quotazioni peraltro – sulla scia dell’incremento dell’e-commerce prodotto dal lockdown – negli ultimi mesi stavano già salendo sensibilmente.
Le indagini della procura di Monaco sono in corso e molti aspetti della vicenda sono ancora avvolti nel mistero. Tuttavia il quadro informativo disponibile suggerisce già alcune riflessioni in merito alla vigilanza sull’industria del fintech – cioè delle tecnologie digitali applicate alla finanza – e all’approccio “tedesco” alla gestione/occultamento dei problemi riguardanti le aziende nazionali.
Un successo apparentemente straordinario
Wirecard è una società che offre servizi finanziari e di pagamento basati prevalentemente su tecnologie digitali (wireless). Ha esordito a fine anni ’90 offrendo transazioni online per siti porno e siti di gioco e nel primo decennio di questo secolo ha conosciuto una rapida crescita che l’ha portata ad una notevole espansione internazionale, di fatto su tutti i continenti con affiliate a Singapore, Hong Kong, Dubai nonché in Malesia, Indonesia, India, Cina, Sud-Africa, Nord-America, Regno Unito, Turchia, Australia e Nuova Zelanda.
Sebbene le attività del gruppo siano numerose e diversificate (fino a ricomprendere l’emissione di carte di credito, servizi di gestione dei call center e di prevenzione delle frodi online), l’azienda si è accreditata principalmente come payment processor, cioè come soggetto che, nell’ambito dei pagamenti con mezzi diversi dal contante (cashless), gestisce per il proprio cliente (il “commerciante” o merchant) tutte le transazioni con la banca (merchant bank) presso la quale il cliente stesso ha il conto a valere sul quale i pagamenti vengono accreditati.
L’altra parte del processo di pagamento coinvolge il consumatore che acquista i beni/servizi offerti dal merchant e invia la disposizione di pagamento tramite carta di credito o altro mezzo rilasciata dalla propria banca (issuing bank) e abilitata al funzionamento sui circuiti gestiti da associazioni che garantiscono il rispetto di determinati standard di sicurezza e affidabilità come Visa o Mastercard.
In questo schema, il ruolo del payment processor è quello di interfacciarsi con le due banche coinvolte (quella del commerciante e quella del consumatore) per assicurare il buon fine della transazione (cfr. Figura).
Stando ai dati diffusi dalla società, negli ultimi anni la processazione dei pagamenti e la gestione dei relativi rischi hanno contribuito per oltre il 70% ai ricavi totali; una quota che per il 2018 – ultimo esercizio per il quale esiste un bilancio certificato – corrisponde a un controvalore di €1,48 miliardi.
Ufficialmente, fino a poco tempo fa, quella di Wirecard aveva tutte le sembianze della storia di un ennesimo successo dell’industria fintech, un successo che si compiaceva (e compiaceva) della garanzia implicita nella solidità del marchio “made-in-Germany” e che sembrava scritto inequivocabilmente nei roboanti dati sulla crescita di ricavi e profitti e sulla strabiliante valutazione di mercato delle azioni della società (cfr. Figura).
Tra il 2012 e il 2018 il tasso annuo di incremento del fatturato è balzato da un già notevole 21,5% a un poderoso 35,4% (dato al 2018), dopo aver toccato addirittura il picco del 44,8% nel 2017. Nello stesso intervallo di tempo gli utili netti hanno decollato (passando dai €73 milioni del 2012 ai €361,5 milioni del 2018) e la capitalizzazione di borsa della società è passata da €2,08 a €16,4 miliardi.
Non tutti però erano convinti che questa straordinaria performance fosse realmente suffragata da solidi fondamentali aziendali.
Numerosi segnali di anomalia
I primi dubbi su Wirecard risalgono al 2008, quando il capo di un’associazione tedesca di azionisti sostenne che i conti consolidati del 2007 fossero incompleti e fuorvianti. La società rigettò l’accusa e assunse Ernst & Young per un audit indipendente da cui non emersero irregolarità. Da allora Ernst & Young divenne il revisore dei conti di Wirecard, incarico che ha conservato per ben 12 anni fino allo scorso giugno.
In tutto questo periodo vari stakeholders – tra cui alcune firme del Financial Times, diversi analisti finanziari come The Analyst e Zatarra Research, e operatori di mercato – hanno sollevato dubbi sull’attività di Wirecard, il suo modello di business e la veridicità della sua informativa contabile. The Analyst, a partire dal 2014 ha raccomandato costantemente ai suoi clienti di vendere l’azione Wirecard, dopo aver scoperto che non c’era traccia di molti dei presunti clienti della società, che la tecnologia utilizzata era di scarsa qualità, i flussi di cassa negativi e il debito in forte aumento.
I medesimi sospetti sono stati preso condivisi da Zatarra, un’altra società di ricerca e investigazione finanziaria che in un report di oltre 100 pagine ha fornito dettagliata evidenza del fatto che i vertici di Wirecard avevano riciclato denaro e facilitato l’evasione delle restrizioni sulle scommesse online previste dalle leggi USA. Quanto al Financial Times, alcuni giornalisti hanno condotto diverse inchieste per far luce su grosse anomalie spesso legate all’acquisizione, da parte di Wirecard, di molte compagnie prevalentemente (ma non solo) in Asia.
Puntualmente le critiche sono state smentite dal management della società fedelmente supportato dall’attività di repressione condotta dalle istituzioni tedesche. Nel 2018 i pubblici ministeri di Monaco hanno sanzionato degli investitori che – sulla base delle evidenze prodotte da Zatarra – avevano venduto allo scoperto azioni Wirecard accusandoli di sospetta manipolazione del prezzo. L’autorità tedesca di vigilanza finanziaria (Bafin) ha sporto denuncia contro due giornalisti del Financial Times e diversi venditori allo scoperto, accusandoli di potenziale manipolazione del mercato per aver segnalato sospette irregolarità nei conti di Wirecard. E per salvaguardare la capitalizzazione di mercato di Wirecard (arrivata a €16,4 miliardi nel 2018), a inizio 2019 la Bafin ne ha anche vietato la vendita di azioni allo scoperto.
Eppure, anche dentro la stessa Wirecard, si sapeva che queste critiche (spesso originate da informatori interni all’azienda, cosiddetti whistleblowers) non erano infondate. Tanto che lo staff della compliance aveva avviato un’indagine interna col nome in codice di “Progetto Tigre” da cui erano emerse prove di falsificazione contabile e fondati motivi per sospettare imbrogli, corruzione e riciclaggio di denaro in più giurisdizioni.
Bilanci abbelliti e elusione delle regole.
Una ricognizione del copioso materiale disponibile in rete consente di ricostruire la principale prassi di falsificazione contabile (book cooking, lett. “cuocere i libri contabili”) posta in essere da Wirecard: il round-tripping o “scambio circolare”. La società poneva cioè in essere un insieme di transazioni con le sue numerose filiali in giro per il mondo per creare l’apparenza di un giro d’affari inesistente. Il denaro veniva trasferito, ad esempio, da una sede in Germania a un’affiliata localizzata in Asia, per poi essere temporaneamente parcheggiato nel bilancio di qualche asserito cliente e infine tornare indietro nel bilancio di qualche altra affiliata del gruppo come nuovo ricavo. Ricavo che in realtà non esisteva.
Per dare copertura a questa operatività di round-tripping, il gruppo Wirecard negli anni ha rilevato tante piccole compagnie – specie nel sud-est asiatico – attraverso modalità di acquisizione piuttosto singolari che prevedevano prezzi d’acquisto eccessivi rispetto all’effettivo valore delle aziende-bersaglio e il pagamento di una quota elevata dell’intero importo della transazione parecchio tempo prima del perfezionamento della stessa. A chi si interrogava sui motivi di questa operatività anomala, i vertici di Wirecard rispondevano che il pagamento parziale anticipato era una prova tangibile della buona fede in affari e che in Asia questa era la consuetudine. Risposta chiaramente elusiva, anche tenuto conto che dal 2018 Wirecard era quotata sul listino di Francoforte.
Molte delle aziende acquistate da Wirecard erano poi attive nel settore della processazione dei pagamenti, caratteristica che – sebbene spesso non navigassero in buone acque – le rendeva appetibili per la società tedesca anche ai fini del riciclaggio di denaro riveniente dal gioco d’azzardo e simili. Attraverso queste affiliate, Wirecard riusciva infatti a fornire i propri servizi a commercianti che operavano in settori merceologici ad alto rischio (come appunto quello delle scommesse online) e, quindi, esclusi dai circuiti di associazioni ad alta reputazione come Visa o Mastercard.
Il compito dell’azienda affiliata era quello di “ripulire” la transazione supportando il commerciante ad alto rischio nella creazione di una società-specchio apparentemente attiva in settori merceologici a basso rischio. La transazione veniva legittimata dalla società-specchio e quindi girata a Wirecard che poteva processare il relativo pagamento sui canali ad alta reputazione.
Rivedere l’impostazione dei controlli in una logica smart.
Ora che finalmente la verità su questa operatività ingannevole ed elusiva sta venendo fuori è doverosa una riflessione su quanto accaduto per cercare di capire come prevenire il ripetersi di episodi simili in futuro. Il caso Wirecard peraltro è particolarmente interessante perché coniuga uno schema di operatività fraudolenta con un’azienda fintech, ed in particolare con i complessi sistemi di processazione dei pagamenti nei quali, come si è visto, si annidano elevati rischi potenziali.
Per essere all’altezza del connubio (ormai irreversibile) tra finanza e tecnologia, autorità di vigilanza, legislatori e governi devono ripensare radicalmente i propri modelli di controllo. La tradizionale impostazione legalistica e regolamentare alla materia della vigilanza finanziaria – stante la lentezza fisiologica che la caratterizza – sarebbe infatti perdente nella sfida con la rapidità d’azione consentita agli operatori dalle tecnologie informatiche e digitali. In una realtà sempre più “virtuale” i vigilantes devono piuttosto dotarsi di presidi idonei ad azzerare il grosso gap che esiste tra la mente umana e la macchina in termini di capacità di elaborazione di dati e informazioni.
A tal fine serve un nuovo approccio alla vigilanza che idealmente dovrebbe incardinarsi su due direttrici: evoluzione culturale delle autorità di controllo ed enforcement.
La prima esige che i controllori possiedano ed aggiornino costantemente competenze professionali specifiche e di alto livello sul funzionamento delle piattaforme di fintech e sulle infrastrutture e tecnologie ad esse sottostanti. Big data, cloud computing, machine learning e intelligenza artificiale sono l’abc di questo mondo e devono quindi essere familiari a chi è competente per la supervisione almeno tanto quanto lo sono ai soggetti vigilati.
La seconda direttrice deve umilmente prendere atto del fatto che ci vorrà del tempo per recuperare lo scarto che oggi esiste rispetto all’industria del fintech e che, nel frattempo, sarebbe velleitario pensare di andare avanti col vecchio sistema dell’iper-regolamentazione. Per contrastare da subito condotte scorrette o addirittura fraudolente come quelle poste in essere da Wirecard occorre un’esemplare attività di enforcement attraverso controlli sul campo e rapida repressione delle violazioni riscontrate. La deterrenza è l’arma di controllo e prevenzione più efficace, almeno nel breve termine.
Il nazionalismo economico tedesco
Un’ultima riflessione suggerita dal caso Wirecard concerne l’operato delle autorità di vigilanza e del governo tedesco. Nel caso in questione, infatti, non erano mancati segnali di gravi anomalie. E invece le autorità di controllo tedesche non hanno fatto nulla. O meglio, nella sostanza hanno supportato questo modus operandi. Si tratta di un fallimento istituzionale che può essere ascritto solo in parte alla pur rilevante complessità della materia. La sensazione è quella di essere di fronte a un’ennesima prova del nazionalismo economico della Germania.
Lo stesso che ha a lungo assicurato serenità ad aziende come la Volkswagen o come quelle coinvolte nello scandalo fiscale Cum-Ex (nel quale molte banche hanno ottenuto indebiti rimborsi per il pagamento della tassa sui dividendi). Lo stesso che ha spinto il governo federale tedesco a stanziare centinaia di miliardi di euro a sostegno del sistema bancario domestico nei primi anni della crisi finanziaria globale. È un sistema che oggi appare nuovamente in seria difficoltà e che probabilmente potrà contare di nuovo su sovvenzioni pubbliche. Insomma, un’ulteriore conferma che in fondo in Europa non siamo tutti uguali e che le regole comuni a tutela della sana competizione tra le aziende, dei risparmiatori e delle risorse statali hanno una variabilità d’interpretazione dai connotati eminentemente geografici.
Marcello Minenna, Direttore Generale dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli
Le opinioni espresse sono strettamente personali
@MarcelloMinenna