Oggi è più eroico fare l’operaio o l’imprenditore? Lo domandava un paio di anni fa in un questionario ai suoi lettori un giornale popolare come Famiglia Cristiana.
Una domanda sempre attuale che metteva il dito nella piaga di una categoria, quella dei piccoli e medi imprenditori, perseguitati da un sovraccarico fiscale e da vincoli e norme burocratiche, amministrative e sindacali, il più delle volte assurde, che rendono sempre più impossibile il mantenimento stesso dell’azienda e dei dipendenti che in essa lavorano.
Non parliamo di un dato marginale. Si tenga presente che secondo la CGIA di Mestre, l’associazione Artigiani e Piccole Imprese, in Italia ci sono 5.275.515 imprese, di cui ben 5.024.657 hanno dai 0 ai 9 addetti, e 221.522 dai 10 ai 49 addetti, cifre dalle quali appare evidente quanto labile sia il confine tra datore di lavoro e dipendenti.
Confine in cui capita spesso che, al di là dei luoghi comuni, sono i datori di lavoro che, assolti i compiti di dare stipendi e pagare i contributi dei dipendenti e gli ammortamenti, le tante tasse a un erario impietoso, restano con meno soldi in tasca anche rispetto ai propri dipendenti.
Con l’aggravio esistenziale che, mentre il dipendente, finito il suo orario di lavoro, lascia l’azienda alle spalle, l’imprenditore se la porta dietro per tutti i problemi e i rischi che l’impresa, anche la più sana, sempre comporta.
E molti, sempre più purtroppo, non ce la fanno.
A questo riguardo il Presidente Nazionale di Confesercenti Massimo Vivoli ha affermato: “I segnali della resa delle botteghe sono ben visibili nelle migliaia di saracinesche abbassate che si affacciano su strade che erano il regno dello shopping, ma che ora sono sempre più deserte e sempre meno sicure”.
Si stima infatti che in Italia dal 2012 ad oggi sono state oltre 300mila quelle che hanno cessato l’attività: un enorme numero di unità immobiliari che si sono liberate sul mercato in un periodo di tempo ridotto, cui vanno sommati i locali lasciati vuoti dalle imprese plurinegozio che, con il perdurare della crisi, hanno ridotto il numero di punti vendita. Siamo ormai arrivati a oltre 627mila locali commerciali sfitti per mancanza di un’impresa che vi operi all’interno, quasi il 25 per cento del totale disponibile, con valori percentuali che in alcune periferie sfiorano il 40 per cento.
Sempre secondo la Confesercenti, la desertificazione colpisce il territorio con una diffusione a macchia di leopardo, ma è generalmente più evidente nei piccoli centri e nelle zone periferiche delle grandi città, dove ormai si trovano serrande calate anche nei centri commerciali. Il più alto numero di negozi sfitti si trova nelle regioni a maggiore densità di locali ad uso commerciale: Lombardia, (oltre 82mila) Campania (quasi 70mila) e Lazio (circa 62mila). Una realtà che, del resto, è sotto gli occhi di tutti.
Questo è un guaio per il Paese. Ma chi se ne rende conto? Non certo lo Stato che - incapace di intervenire sulla spesa pubblica se non, quando ci ha provato, con tagli stupidamente lineari che hanno colpito il welfare e il comparto della cultura e del turismo invece di andare a incidere drasticamente sulle aree di spreco, sull’elefantiaco e inetto apparato burocratico e della politica - crede di risolvere i problemi continuando ad aumentare le tasse e il costo del lavoro, col risultato di peggiorare la situazione, con aziende costrette a chiudere o a delocalizzare.
Né certo se ne rendono conto i sindacati, il cui interesse preminente è difendere le proprie rendite di posizione e di potere per sopravvivere in un mondo che è andato troppo avanti rispetto alle loro categorie politiche e intellettuali, ancorati come sono a vecchi schemi ideologici che intendono per lavoratori i soli dipendenti, mentre trascurano del tutto gli imprenditori, dal cui lavoro, fatto in prima persona, con tutti i rischi del caso e con minori diritti dei propri dipendenti, anzi con quasi soli obblighi, deriva quello degli altri.